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Competitività 5

Regioni sull’orlo di una crisi di competitività

Verso la fine del mese di agosto, quando molte persone stavano ancora godendosi gli ultimi scampoli di vacanza, l’infaticabile Commissione Europea ha diffuso le graduatorie dell’ “EU Regional Competitiveness Index – RCI 2013”, l’ennesimo  report da cui l’Italia ne esce con le ossa rotte. Il nostro Paese si situa ormai nelle retrovie della competitività, con le regioni del Nord che non reggono più la concorrenza dei paesi dell’Europa centro-settentrionale: Paesi Bassi, Gran Bretagna, paesi scandinavi la fanno da padroni, mentre noi indietreggiamo vistosamente.

Non si è trattato in questo caso di una classifica per nazioni ma di un ranking delle regioni d’Europa (o più propriamente di aree, non sempre coincidenti con regioni “istituzionali”), dove al primo posto troviamo la Regione di Utrecht, Olanda. Nessuna delle nostre regioni rientra nel simbolico gruppo delle prime 100: la prima, la “canonica” ed operosa Lombardia, si colloca al 128esimo posto su un totale di 271 regioni, ma, attenzione!, perdendo ben 30 posizioni rispetto alla classifica precedente del 2010. Volendo trovare dati confortanti occorre sottolineare che per alcune regioni c’è stato dal 2010 un recupero di competitività, con dei balzi anche significativi, come per la Provincia autonoma di Trento e per la Valle d’Aosta. Con tutto il rispetto, tuttavia, non sono queste le aree su cui si fonda lo sviluppo del Paese…  Si conferma inoltre il cronico divario tra le regioni del Nord e quelle del Sud, la maggior parte delle quali ristagna sul fondo della classifica europea.

Qualcosa di nuovo, di inaspettato? Purtroppo no, ma proprio per questo si tratta di dati che, oltre a far riflettere sulla condizione del nostro Paese, offrono lo spunto per qualche considerazione.

Pur riconoscendo che l’Indice di Competitività della graduatoria è ottenuto tramite un insieme di parametri di ampia portata, è innegabile la relazione con la specifica condizione competitiva delle imprese, che contribuisce alla definizione dell’indice stesso.

Tralasciamo per un momento alcuni parametri presi in considerazione dai ricercatori, quali ad esempio la qualità delle istituzioni, la stabilità macro-economica e le infrastrutture, elementi certamente non controllabili dalle singole organizzazioni. Soffermiamoci invece sui cosiddetti “innovation pillars”, quali la “technological readiness”, la “business  sophistication”, l’innovazione e il capitale umano: siamo sicuri che  le singole organizzazioni non possono far nulla in questi ambiti?

La lettura dei dati suggerisce che la carenza di competitività delle aziende nostrane è da imputare sostanzialmente alla scarsa competitività delle variabili politiche (in primis i “governi”, nazionali o locali/regionali), ma che certamente c’è anche una compartecipazione di responsabilità delle imprese: così come ci sono regioni competitivamente “virtuose” nell’ambito nazionale, ci sono anche aziende “virtuose”.

Molti fattori di competitività sono riconducibili ad elementi indirizzabili dall’impresa stessa, che spesso hanno una diretta correlazione con la performance collettiva dell’azienda e quella dei singoli individui che la compongono. Ad esempio, la scelta del business (ormai dovrebbe essere noto a tutti che su certi prodotti non possiamo essere competitivi, anche se si ritoccasse il costo del lavoro) oppure la capacità di combinare la “vision” aziendale (naturalmente, avendola prima definita e condivisa…) con la capacità di lettura dei mercati e della concorrenza. Il focus, e le conseguenti risorse, destinato alla ricerca e sviluppo, sostenuto da una reale cultura dell’innovazione. La capacità di attrarre, sviluppare e mantenere i talenti.

Certamente non sono situazioni facili da affrontare. Ma non sono impossibili da perseguire. Su cosa fare leva? Sulle risorse finanziarie? Oggi, più che mai, un elemento da fantascienza. Sulla tecnologia? Può essere, purché sia funzionale allo sviluppo e si sia consapevoli che corre a velocità supersonica (e quando pensiamo di essere avanti qualcuno ci sta già superando o l’ha comprata). E se pensassimo alle persone? Sicuramente la risorsa di maggior potenziale, ma anche la più difficile e complessa: tutti coloro che hanno a che fare con lo sviluppo delle persone lo sperimentano quotidianamente. E’ questo un  campo vastissimo che comprende fattori eterogenei: talenti da coltivare ed esperienze da riconvertire, sviluppo di competenze e carenza di motivazione, capacità di guida e responsabilità da affrontare.

Ma è anche il “capitale” che, oggi più che mai, ci può dare il maggiore “rendimento” e su cui puntare per avere effetti benefici sulla competitività delle singole imprese e dell’intero Paese. E poter magari faticosamente scalare qualche posizione nella prossima classifica…

3 Comments Post a comment

  1. Felix

    16 settembre 2013 at 16:39

    Non solo la cattiva politica,ma anche la soffocante burocrazia,accompagnata da sentenze assurde e praticamente devastanti sotto il profilo imprenditoriale,impediscono un serio sviluppo industriale,nonostante in Italia non manchino i talenti validi e la voglia di intraprendere.Molti neo laureati,andati all’estero per un master,decidono di fermarsi là,sia per le opportunità che vengono loro offerte dal punto di vista dello sviluppo professionale,sia per il trattamento economico,a volte neppure paragonabile a quello che avrebbero in Patria.

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  2. Pierluigi Gallese

    17 settembre 2013 at 08:09

    L’analisi è concreta e aderente alla realtà, poichè il ‘problema’ ha diverse concause. Non a caso, tra le prime 10 regioni della classifica si trovano due aree
    olandesi, le quali spiccano per infrastrutture ed innovazione, elementi che, indubbiamente, necessitano
    di “capitali” :
    – Capitale finanziario, il quale oltre alla matrice privata deve ritrovare l’iniziativa pubblica (ed anche mista) , sottintendendo in tutti i casi una (congrua) remunerazione del fattore produttivo, poichè
    se è vero che nel nostro paese è migliorabile il project financing risulta altrettanto migliorabile la tutela del
    ‘creditore’ ;
    – ma soprattutto CAPITALE UMANO. Personalmente credo che proprio questo fattore possa fare la differenza, purchè indirizzato, formato ed opportu- namente ‘coltivato’ .
    A questo proposito è il caso di ricordare che, contestual-mente al ranking in discorso, la stessa Commissione Europea ha invitato l’Italia ad un utilizzo più intenso ed appropriato dei fondi europei (60% quota inutilizzata).

    GP

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  3. Piergiorgio Accrocca

    17 settembre 2013 at 14:04

    L’Editoriale è molto interessante ed offre l’ennesimo spunto di riflessione sui fattori che possono essere “motori di ripresa” in periodi economicamente complessi e depressi.
    Infatti ed al di là delle considerazioni sulle lacune e ritardi tecnico- infrastrutturali del ns Paese, denunciati ma cronici oramai da lungo tempo, condivido che la riflessione vada fatta sul conservatorismo e talvolta sulla tendenza alla de-responsabilizzazione, che permea la nostra cultura, anche all’interno delle organizzazioni aziendali: ad esempio la mancanza di spirito di innovazione e di sfidarsi è figlia infatti di una cultura che non ammette l’errore come (possibile) frutto della esperienza ed invece ammissibile in una reale cultura del miglioramento continuo. Queste caratteristiche tipicamente italiane (e ciò a prescindere dalle latitudini), limitano la possibilità di sfruttare appieno le potenzialità del capitale umano nelle organizzazioni, dove troppo spesso sono la tattica politica e la prudenza a dominare e soffocare gli impulsi di miglioramento e novità. Non è un caso se quegli esempi, ancora troppo eccezionali, di Organizzazioni di successo (penso ad esempio alla Technogym), si basino invece e fortemente su culture aperte, che stimolano il coinvolgimento, la partecipazione, la responsabilizzazione e l’innovatività delle persone che ne sono membri. E’ proprio vero: il capitale umano è un “capitale”…. e proprio per questo andrebbe investito e gestito oculatamente per poterne avere un profitto.

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